lunedì 30 dicembre 2013

LIBANO, ESPLOSIONE A BEIRUT: UCCISO CONSIGLIERE PRIMO MINISTRO HARIRI. OTTO MORTI E FERITI


L'autobomba è scoppiata a piazza Starco, vicino la sede del governo. Tra le vittime l'ex ministro libanese delle Finanze Mohammed Shatah. Secondo l'agenzia Nna, era l'obiettivo dell'attacco. Al momento della deflagrazione si trovava in macchina diretto a una riunione della Coalizione ostile al regime di al Assad

BEIRUT - Una fortissima esplosione causata da un'autobomba è risuonata al centro di Beirut, in Libano, nella zona del Four Seasons Hotel, non lontano da dove il 14 febbraio del 2005 venne ucciso in un attentato l'allora premier libanese Rafiq Hariri, a poche centinaia di metri dalla sede del governo. Nell'attentato è morto l'ex ministro libanese delle Finanze Mohammed Shatah, attuale consigliere del premier Saad al Hariri ed esponente del movimento al Mustaqbal (Il Futuro). Secondo l'agenzia di stampa ufficiale Nna, l'obiettivo dell'attacco era la sua abitazione. Al momento della deflagrazione l'ex ministro si trovava in macchina, diretto a una riunione della Coalizione denominata del "14 marzo", ostile al regime di Bashar al Assad e favorevole all'opposizione siriana. 

Il bilancio ufficiale è di 8 morti e decine di feriti, almeno 70, riferisce la Croce Rossa, precisando che il conteggio delle vittime è destinato ad aumentare. Oltre all'ex ministro è morto anche il suo autista. Pennacchi di fumo si sono levati in cielo per ore. Al Arabiya, al Jazeera e la tv libanese Future Tv hanno mostrato immagini di auto e corpi in fiamme. Il via vai delle ambulanze è stato continuo. La situazione della sicurezza nel 'Paese dei Cedri' si è gravemente deteriorata dopo l'inizio della guerra civile in Siria, nel marzo 2011.

L'ultimo attentato che ha colpito il Libano risale a poco più di un mese fa, il 19 novembre, quando in un doppio attacco suicida contro l'ambasciata dell'Iran a Beirut morirono 25 persone e 146 rimasero ferite. L'attentato è stato rivendicato da un gruppo jihadista libanese che si ritiene legato ad al Qaeda, le Brigate Abdullah Azzam.  L'esplosione è avvenuta intorno alle 9.40 locali (le 8.40 in Italia) in piazza Starco, nel pieno centro tursitico-finanziario di Beirut. I vetri in frantumi sono arrivati fino all'ottavo piano del palazzo Starco che dà il nome alla piazza e ospita numerosi servizi tra cui un grande teatro. Le schegge dell'esplosione sono state trovate fino a oltre 500 metri.

L'ex ministro libanese ucciso era il braccio destro dell'ex premier Saad Hariri e leader dell'opposizione parlamentare vicina all'Arabia Saudita, ostile agli Hezbollah e all'intero asse filo-iraniano in Libano e nella regione. Shatah aveva ricoperto la carica di ambasciatore libanese negli Stati Uniti e consigliere dell'ex premier Fouad Siniora. Ultimamente era stato incaricato di gestire a Beirut le relazioni politiche e con i media per conto di Hariri, da tempo residente all'estero per timore di esser ucciso nel suo Paese. Pochi minuti prima di essere ucciso, Shatah aveva scritto sul suo profilo Twitter un commento molto duro nei confronti del regime siriano e degli Hezbollah, alleati dell'Iran. "Hezbollah - aveva scritto - sta realizzando la stessa strategia del regime siriano, vuole far tornare la situazione in Libano come quando era sotto il dominio di Damasco"

Sul posto è arrivato il ministro dell'Interno libanese, Marwaw Sherbil, visibilmente scosso, non ha voluto commentare: "Non voglio parlare di politica", ha detto, "ma posso dire che l'unica strada è andare al dialogo e trovare una soluzione politica". Una riunione d'emergenza
dell'Alta Commissione per i grandi rischi e i disastri è stata convocata al Gran Serraglio, sede del governo di Beirut, su decisione del premier dimissionario Najib Miqati

"Mohammad Shatah è stato ucciso da chi ha ucciso anche Rafiq Hariri", ha fatto sapere in una nota, l'ex premier libanese Saad Hariri che accusa implicitamente gli sciiti di Hezbollah, criticando con forza "quelli che in Libano giustificano la presenza delle armi e delle milizie a discapito dello Stato e delle sue istituzioni". "Gli assassini di Shatah vogliono uccidere il Libano", si legge nel comunicato del figlio ed erede politico di Rafiq Hariri. L'attacco odierno è per Saad Hariri un "messaggio terroristico per la corrente di al-Mustaqbal e i liberali del Libano". "I criminali - prosegue Hariri - non hanno nascosto le loro impronte e i loro crimini non si fermeranno". 



domenica 8 settembre 2013

Riflessioni sulla Siria



In Siria  si combatte la prima guerra mondiale su scala locale. Dico mondiale perché vi sono coinvolti  le massime potenze internazionali e regionali.
La rivolta siriana, iniziata come un movimento di forte protesta non violento, ben presto si è indirizzata verso la militarizzazione, sia per interventi di bande straniere che per risposta del regime.
Gli schieramenti contrapposti sono, da un lato, formati da coloro che appoggiano il regime (Iran, Russia e Hezbollah libanesi); dall’altro, coloro che agiscono per la caduta di Bashar Assad (le petromonarchie del Golfo, America e, seppur con vari distinguo, l’U.E.). In particolare è notevole, a livello regionale, l’interessamento dell’Arabia Saudita e della Turchia per interessi geopolitica e strategici.
Il regno di Casa Saud vede nella caduta di Assad il ridimensionamento della Mezzaluna sciita,  composta da Libano, Siria, Iraq e Iran,  a favore del proprio prestigio di vero “baluardo e difensore del vero Islam”. Insomma il ripetersi dell’antica diatriba tra sunniti e sciiti.
La Turchia, invece, vede la possibilità di una penetrazione strategica nel sud-est asiatico, in ottemperanza alla dottrina politica del proprio ministro degli Esteri, Davutoglu. Tutto ciò ha portato alla formazione di diverse sigle di opposizione, divise tra loro in quanto non aderiscono ad una piattaforma politica comune.
Le maggiori sono: il Consiglio nazionale siriano, di base a Istanbul, formato per la maggioranza dai Fratelli musulmani siriani; il Comitato di coordinamento nazionale per il cambiamento democratico, tendenzialmente di sinistra; il Forum democratico siriano, anch’esso di sinistra; la Coalizione nazionale siriana, che mira a incorporare tutte le componenti di opposizione. Agiscono, anche, alcune componenti inserite nella lista nera del terrorismo, poiché in questo conflitto vi sono organizzazioni jihadiste. Difatti combattono in Siria in nome del “Bilad al-Sam”, ovvero il nome storico della capitale –oggi Damasco- del primo califfato islamico, nonché la terra dove un giorno avverrà il “Giorno del  giudizio” (yawm al-qiyama) con lo scontro tra le forze del bene e del male.
Un conflitto eterogeneo, che vede oggi, la possibilità di un intervento militare americano in Siria. Intervento fortemente osteggiato da Putin tanto che nelle acque del  Mediterraneo si muovono le navi da guerra americane e russe come ai tempi della guerra fredda. La risposta militare in un quadro così frammentato non farebbe altro che allargare il conflitto con conseguente rappresaglia su Israele e l’alta possibilità di far esplodere la guerra civile in Libano. Inoltre si creerebbe quel vuoto di potere che potrebbe essere colmato da altri attori estremisti

martedì 3 settembre 2013

Siria, Ban: "Solo Consiglio legittima forza". Ma dal Congresso Usa primi sì al raid

Il segretario generale dell'Onu: "Azione Usa può scatenare altre violenze". Ma il presidente continua il pressing sui parlamentari per ottenere il via libera a un intervento "mirato". Il leader repubblicano della Camera Boehner lo appoggia. Audizione di Kerry al Senato: "Armi chimiche sono state usate, e le ha usate il regime di Assad", "Obama non vi chiede di andare in guerra". Israele, esercitazione missilistica nel Mediterraneo


 NEW YORK - L'ipotesi di un raid americano sulla Siria allarma l'Onu, che parla di rischio di "violenze maggiori". E il segretario Ban ki-Moon frena i piani della Casa Bianca, impegnata in queste ore a raccogliere i consensi del Congresso a un intervento armato. Ban riconosce che "se le armi chimiche sono state usate in Siria il Consiglio di Sicurezza deve mostrare unità e decidere misure", ma solo il consiglio di Sicurezza può legittimare l'uso della forza: "Come ho già ripetuto dobbiamo passare attraverso il consiglio di sicurezza, l'uso della forza può essere fatto all'interno della legge solo per legittima difesa in base all'articolo 51 della carta delle Nazioni unite o quando il Consiglio di sicurezza approva tale azione".

La Casa Bianca in pressing sul Congresso
. Barack Obama oggi ha chiesto al Congresso un voto in tempi rapidi per dare il via libera al raid in Siria e si è detto fiducioso di una decisione favorevole. "Non è l'Iraq, non è l'Afghanistan. Stiamo parlando di un raid limitato, proporzionato, che è un messaggio non solo ad Assad, ma anche ad altri che potrebbero pensare di usare armi chimiche anche in futuro", ha spiegato Obama.
Il segretario di Stato John Kerry, comparendo di fronte alla commissione Esteri del Senato ha difeso con forza il piano: "Gli Usa non saranno spettatori di un massacro", e si è detto certo che in Siria "armi chimiche sono state usate, e le ha usate il regime di Assad". Convinzione stavolta basata su informazioni certe, assicura Kerry che volutamente cita il precedente disastroso di Colin Powell e le finte prove sulle armi chimiche di Saddam Hussein: "Siamo molto sensibili all'uso dell'intelligence nel chiedervi un voto", ha detto. Ma il raid, ha aggiunto Kerry, non sarà una replica dell'incubo iracheno: "Il presidente non ci sta chiedendo di andare in guerra". Anche se, ha aggiunto, la risoluzione davanti al Congresso non sarà formulata in modo da impedire l'ipotesi dell'utilizzo di truppe in caso di "implosione" del Paese. La sua audizione è stata interrotta brevemente dalla protesta anti-guerra di un militante.

 Oggi dal Congresso Obama incassa un primo appoggio importante, quello dello speaker della Camera, il repubblicano John Boehner: "È necessario rispondere all'attacco con armi chimiche in Siria: solo gli Stati Uniti hanno la capacita di fermare Assad",  ha detto dopo aver incontrato il presidente. E sulla stessa linea c'è il leader della maggioranza repubblicana alla Camera, Eric Cantor, che ha annunciato di aver deciso di sostenere la richiesta del presidente: ''Intendo votare per fornire al presidente degli Stati Uniti l'opzione di usare la forza militare in Siria'', ha affermato in un comunicato. Ed è quasi certa che il Congresso non negherà l'ok all'intervento la leader dei democratici alla Camera Usa, Nancy Pelosi, che ha aggiunto che la gente ha bisogno di saperne di più sulle informazioni che hanno spinto l'amministrazione Obama a concludere che Assad abbia ucciso centinaia di suoi cittadini utilizzando sostanze chimiche. Secondo l'ultimo sondaggio Washington Post-Abc, il 59% degli americani è contrario all'intervento.

Francia annuncia riunione europea. Intanto, il presidente della Repubblica, François Hollande, ha spiegato che se  il Congresso americano voterà contro l'intervento in Siria, la Francia non interverrà da sola e ha annunciato una riunione europea "nei prossimi giorni", senza dubbio durante il G20 di San Pietroburgo in Russia.

Israele: "Effettuati test missilistici con Usa".
Dichiarazioni quelle del presidente degli Stati Uniti che seguono di poco l'annuncio di Israele di avere effettuato nel Mediterraneo un test missilistico congiunto con gli Usa. Il ministero della Difesa ha spiegato che alle 6,15 Gmt, le 8,15 italiane, sono stati effettuati lanci da una base dell'aviazione nel centro di Israele per testare i sistemi anti-missile. La dichiarazione chiarisce il giallo dei due "oggetti balistici" lanciati nel Mediterraneo orientale rivelati da radar russi. I media israeliani hanno riferito che il test sarebbe consistito nel lancio di missili Ankor Kahol, vettori realizzati da Israele a imitazione dei missili Shahab iraniani. Quindi il test serviva a provare il sistema di difesa anti-missile Hetz, già sperimentato nell'Oceano Pacifico, nel caso di un attacco da parte di Teheran. Notizia qualche ora dopo dal Dipartimento della Difesa Usa che ha confermato di "aver fornito assistenza tecnica e sostegno" al Ministero della Difesa israeliano per condurre un "test di difesa missilistica" sul Mediterraneo, che era previsto da molto tempo.

Questa mattina, dopo la notizia del lancio da parte dei russi, Israele aveva fatto sapere in un primo momento di non avere riscontri. Fonti della sicurezza siriana avevano poi confermato che nessun missile era caduto sul territorio siriano. Poco dopo l'ambasciata russa ha dichiarato che non c'erano segnali di un attacco missilistico o di esplosioni nell'area di Damasco.

Russia: "Ribelli dietro attacco chimico". La tensione sulla questione siriana resta alta.  Il capo dei medici legali di Aleppo ha disertato dal regime di Assad. Lo afferma l'opposizione siriana, affermando che ha le prove del coinvolgimento del regime nel presunto attacco chimico su Aleppo di marzo. Mosca ha fatto sapere di avere le prove dell'uso di armi chimiche da parte dei ribelli siriani nell'attacco chimico del 21 agosto a est di Damasco. Lo sostiene l'ambasciatore siriano a Mosca, Riad Haddad, che dice: "Tutte le prove e gli elementi dimostrano che sono stati i gruppi armati dell'opposizione ad usare armi chimiche in quell'attacco". Fra queste ci sono "fotografie in cui sono visibili il luogo e l'orario del lancio del razzo".

Nuovi tweet di Papa Francesco. Il pontefice ha pubblicato nuovo tweet sul conflitto:  "'Vogliamo che in questa nostra società, dilaniata da divisioni e da conflitti, scoppi la pace", ha scritto stamani sul social network, mentre in serata ha condannato con fermezza l'uso di armi chimiche.

 La Santa Sede ha fatto sapere che sabato, dalle ore 19 alle 23, sul sagrato della Basilica di San Pietro, Bergoglio  presiederà una veglia di preghiera in occasione della giornata di digiuno e preghiera per la pace da lui indetta in tutta la chiesa cattolica. Intanto 250 ong arabe hanno scritto a Obama e Putin perché si cerchi di raggiungere la pace in Siria.

Bersani: "Nessun intervento fuori quadro Onu".
"Credo che la posizione del governo italiano sia giusta: non facciamo niente se non nel quadro dell'Onu e anche in quel caso dobbiamo discuterne in Parlamento". L'ex segretario del Pd, Pierluigi Bersani, alla festa del partito a Genova, esprime così la sua posizione sulla crisi siriana. "La situazione è pericolosa - ha aggiunto - perché la Siria non è la Libia, è un crocevia di interessi e tensioni. Assad ha superato ogni limite, tuttavia se non c'è una condizione di base che sta nella capacità dell'opposizione di darsi un profilo unitario, credibile e rassicurante per il futuro, soluzioni non ce ne sono. Ogni intervento rischia di essere troppo, perché provoca vittime e troppo poco perché non risolve la situazione. Serve uno sforzo politico" internazionale "per trovare argomenti credibili per la Russia e l'Iran".

Anche ministri Mauro e D'Alia aderiscono a digiuno. Dopo l'annuncio di ieri del ministro degli Esteri, Emma Bonino, oggi anche il ministro della Difesa, Mario Mauro, quello Pubblica Amministrazione e la Semplificazione, Gianpiero D'Alia, e Federica Pellegrini hanno detto che parteciperanno al digiuno indetto dal Papa per la Siria.

martedì 16 luglio 2013

Siria, cinquemila morti al mese La guerra che non finisce mai

Il drammatico dato è stato diffuso dal vicesegretatio generale dell'Onu Ivan Simanovic.  Nello stesso tempo, la situazione degli oltre 1,8 milioni di rifugiati siriani resta la peggiore dal genocidio del Ruanda del 1994. Ad affermarlo è l'Alto Commissario dell'Onu per i Rifugiati, Antonio Guterres. Si segnalano 9 persone "giustiziate" tra le quali un bambino


NEW YORK - Sono cinquemila i siriani che muoiono ogni mese in Siria, in un conflitto tanto sanguinoso, quanto ancora lontano da una seppur minima tregua. Il dato è stato riferito al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, riunito proprio sulla crisi siriana, da Ivan Simanovic, vice-segretario generale delle Nazioni Unite, uno dei responsabili per i diritti umani del Palazzo di Vetro. "Il tasso estremamente alto di morti - ha detto - testimonia il drammatico deterioramento del conflitto". 

Le difficoltà di aiutare i profughi. Nello stesso tempo, la situazione degli oltre 1,8 milioni di rifugiati siriani continua ad essere la peggiore crisi umanitaria dal genocidio del Ruanda del 1994. Ad affermarlo è l'Alto Commissario dell'Onu per i Rifugiati, Antonio Guterres. Valerie Amos, sottosegretaria per gli affari umanitari delle Nazioni Unite, ha lanciato un appello affinché venga concesso un passaggio sicuro per i convogli umanitari e il cessate il fuoco, quanto meno durante il periodo del Ramadan. 

Il racconto di 8 adulti e un bambino "giustiziati".
 Nove siriani, tra cui un bambino, sarebbero stati "giustiziati" dalle forze del regime del presidente Bashar al-Assad a un checkpoint nella provincia di Damasco. Lo hanno riferito gli attivisti dell'Osservatorio siriano per i diritti umani. L'episodio, si legge sulla loro pagina Facebook, è avvenuto ieri sera a Qara, nei pressi della città di Qalamun. Un video girato dagli attivisti, la cui autenticità non può essere garantita, mostra i corpi delle presunte vittime della strage, coperti parzialmente con un telo di plastica e stesi su un pavimento bianco di una stanza. Secondo l'Osservatorio, i nove sarebbero stati uccisi con colpi d'arma da fuoco alla testa o al petto.

Un patrimonio distrutto. L'Unesco ha provveduto ad annunciare i danni subiti dal Krac dei Cavalieri - la Fortezza dei Curdi, un presidio militare siriano, nei pressi di Homs, considerato il castello medievale per eccellenza d'età crociata, uno dei siti del patrimonio mondiale. I due castelli che formano la fortezza, situata nell'ovest del paese, sono "esempi eccezionali dell'architettura corciata della regione, che si è sviluppata fra l'11° e il 13° secolo", ha fatto sapere la direttrice generale dell'Unesco Irina Bokova. Nel corso della sessione del comitato del patrimonio mondiale, che si è tenuta in Cambogia a giugno, i sei siti del patrimonio mondiale siriano sono stati iscritti sulla lista dei patrimoni in pericolo. "Distruggere l'eredità del passato, prezioso per le generazioni future - ha detto Irina Bokova - non fa che accentuare la spirale dell'odio e della disperazione, indebolendo sempre di più i fondamenti della coesione della società siriana".

http://www.repubblica.it/solidarieta/emergenza/2013/07/16/news/siria_cinquemila_morti_al_mese_la_guerra_che_non_finisce_mai-63113349/

domenica 30 giugno 2013

Egitto nel caos, 22 milioni di firme contro Morsi

Via lo staff Usa dopo gli scontri
di venerdì. Oggi l’opposizione
protesta in piazza Tahrir
 
francesca paci
inviata al cairo
A piazza Tahrir sono tornate le tende. Non quelle cupe dei senza tetto che nei mesi dopo la rivoluzione del 2011 avevano approfittato della deriva anarcoide del post Mubarak per dividersi la terra di nessuno con malviventi, provocatori islamisti o nostalgici del regime e giovanissimi demoni dostoevskiani.

Le tende che oggi accoglieranno con caffè caldo i manifestanti in arrivo da ogni angolo del Cairo e dell’Egitto per contestare il primo anniversario della detestata presidenza Morsi hanno l’entusiasmo di due anni e mezzo fa, quando un paese coraggioso ma incosciente e ingenuo riuscì in 18 giorni ad aver ragione del trentennale regime del Faraone.

«Allora chiedevamo pane, libertà, dignità per i poveri e trasparenza politica, adesso vogliamo che se ne vadano i nuovi potenti responsabili del fallimento di quel programma, ossia i Fratelli Musulmani» spiega Sherif Abdel Monem nella sede scalcinata di Tamarod, in arabo ribellione, il movimento che in tre mesi ha calamitato almeno 10 mila volontari e raccolto oltre 22 milioni di firme contro Morsi, 9 milioni in più dei voti ottenuti dal primo presidente islamista d’Egitto. Sherif, 30 anni, un posto in banca e una lunga militanza politica a sinistra, registra le schede con nome, cognome, documento e autografo che continua a ricevere: «Quando abbiamo iniziato non ci credevamo. Con Mubarak non sarebbe stato possibile, eravamo terrorizzati perfino dal criticarne la camicia, invece la rivoluzione ci ha dato coraggio e la mediocrità di Morsi ci ha rafforzato».

Il morale è alto e lo spirito vivace, come testimoniano le t-shirt in vendita a Tahrir con Morsi che scappa travolto dal tifone «Tamarod» o gli onnipresenti cartellini rossi su cui, alla maniera calcistica, è scritto «espulsione». Ma se la prima rivoluzione è costata quasi mille vittime, la seconda potrebbe non essere meno violenta, almeno a giudicare dal bilancio degli ultimi tre giorni a Alessandria, Port Said e Mansura con 8 morti (tra cui l’americano Andrew Pochter), 606 feriti, 5 donne aggredite sessualmente.

«Ci aspettiamo scontri, ma la presenza dell’esercito e della polizia, ostili ai Fratelli Musulmani, incoraggeranno molte persone a scendere in piazza nonostante la paura» osserva Ayman Alkadi, attivista di Dustur, il partito dell’ex capo dell’Aiea el Baradei nonché una delle principali sigle del cartello delle opposizioni Fronte di Salvezza Nazionale. Per vedere i blindati in postazione bisogna andare alla sede della televisione di stato, al palazzo presidenziale o vicino all’ambasciata statunitense che, contrariamente all’invito al dialogo della Casa Bianca, resta un tabù tanto per gli islamisti radicali (unici alleati dei Fratelli Musulmani) quanto per piazza Tahrir, dove uno striscione accusa Obama di sostenere «i terroristi» con la sua indulgenza verso Morsi. Ma seppure in borghese i militari sono ovunque, pronti a impedire «il caos» come annunciato sibillinamente dal ministro della difesa el Sissi.

«Aspettiamo che dopo averci messo da parte il paese ci richiami per essere protetto dai Fratelli Musulmani, in fondo, per esempio, siamo noi che stiamo mettendo in difficoltà Morsi con Hamas distruggendo i tunnel del contrabbando a Gaza» racconta una fonte dell’esercito. Il presidente islamista in realtà ha i suoi bei guai anche in casa dove la disoccupazione ha superato il 13%, la crescita è la più bassa degli ultimi vent’anni, la valuta estera come il turismo è in fuga e il prestito di 4,8 miliardi di dollari atteso dal Fondo Monetario Internazionale rischia di rivelarsi un boomerang per via dei tagli necessari ai sussidi di cui vive il Paese. Ma i militari pensano assai più strategicamente di quanto stiano provando di saper fare i Fratelli Musulmani, avidi di potere con la foga dei parvenue. E lavorano per mantenere il controllo sulla politica accaparratosi dai tempi di Muhammad Ali.

A differenza del 2011 gli egiziani sono più consapevoli, confondono ancora l’opposizione con la protesta ma avanzano richieste concrete: dimissioni del presidente, governo provvisorio, nuove elezioni. Donne velate e non, cristiani, musulmani, tutti convinti che la partita non sia «il gioco a somma zero» vaticinato dall’analista Khalil Anani.
«Stiamo preparando i nostri attivisti a non rispondere se saranno attaccati» chiosa Sherif. La violenza è un gorgo e i ragazzi di «Tamarod» non vogliono annegare con gli ex amici barbuti.

 http://www.lastampa.it/2013/06/30/esteri/egitto-nel-caos-milioni-di-firme-contro-morsi-wij8N2yihc9BwDP11RbAiJ/pagina.html

mercoledì 20 marzo 2013

La questione di Cipro

Geograficamente situata in Asia, l’isola di Cipro dista circa 70 km dalle coste dell’Anatolia, 100 km da quelle del Vicino Oriente e quasi 400 da quelle africane.
Nel corso dei secoli numerosi popoli ed imperi si sono succeduti nel controllo dell’isola: nell’antichità i Micenei, l’Egitto dei faraoni, l’Impero Persiano Achemenide, l’Impero di Alessandro Magno, l’Egitto della dinastia ellenistica dei Lagidi (Tolomei) e Roma; nel Medioevo: l’Impero Bizantino, gli Arabi, l’Ordine dei Templari e la dinastia francese dei Lusignano; in epoca moderna la Repubblica di Venezia, l’Impero Ottomano ed infine in epoca contemporanea l’Impero Britannico. La particolare collocazione geografica ha fatto si che fin dall’antichità l’isola risultasse determinante per il controllo del Mediterraneo orientale.
L’importanza geostrategica di Cipro aumentò con l’apertura del Canale di Suez (1869) che consentiva la navigazione dall’Europa all’Asia senza dovere più circumnavigare l’Africa; ciò destò l’interesse britannico che nel 1878 ottenne dalla Sublime Porta il permesso di occupare ed amministrare l’isola.
Durante la dominazione britannica le tensioni, alimentate ad arte da Londra, tra le due comunità, quella di lingua greca maggioritaria che puntava all’unione (énosis) con la Grecia e quella di lingua turca minoritaria che invece optava per la separazione (taksim), spinse sia Atene che Ankara ad intromettersi negli affari interni dell’isola.
L’adesione della Grecia e della Turchia alla NATO (1952) e l’indipendenza di Cipro (1960) non stemperarono le tensioni tra i due paesi e tra le due comunità isolane che anzi aumentarono fino a sfociare in violenti scontri interetnici che richiesero nel 1964 l’invio di una missione ONU; la UNFICYP (United Nations Peacekeeping Force in Cyprus).
Nel luglio del 1974, per contrastare un colpo di Stato dei radicali greco-ciprioti sostenuti dalla giunta militare dei colonnelli di Atene che aveva come obiettivo l’annessione di Cipro alla Grecia, l’esercito turco invase la parte nord dell’isola (Operazione Attila) occupando circa un terzo dell’intero territorio e cacciando oltre centomila residenti greco-ciprioti verso sud.
Posta davanti alle coste mediterranee dell’Anatolia, quasi a formare una naturale barriera difensiva da eventuali attacchi provenienti da sud, l’importanza geostrategica di Cipro non poteva certo sfuggire ad Ankara che in questo modo si assicurava il controllo del lato nord dell’isola prospiciente le coste anatoliche.
L’intervento militare turco ricevette l’implicito avallo degli USA e dalla Gran Bretagna (la quale manteneva sull’isola le due basi militari di Akrotiri e Dhekelia) che mal tolleravano l’adesione di Cipro al Movimento dei Paesi Non Allineati per opera del primo presidente l’Arcivescovo Makarios III.
Nel 1983 la parte nord dell’isola si auto proclamò indipendente col nome di Repubblica Turca di Cipro Nord (TRNC). La dichiarazione di indipendenza, riconosciuta solo da Ankara, fu dichiarata “non valida dal punto di vista giuridico” dalle Risoluzioni 541 (1983) e 550 (1984) del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Ma è solo negli ultimi sette anni, con l’adesione della Repubblica di Cipro all’Unione Europea, il fallimento del piano Annan e la ripresa delle trattative tra le due comunità nel 2008, che la questione cipriota ha riacquistato nuova visibilità ed interesse a livello internazionale.
Il fallimento del piano Annan, la ripresa del dialogo, la vittoria di Eroğlu e gli ultimi risvolti di gennaio 2011


Il 24 aprile 2004 sia nella parte greca che in quella turca di Cipro si svolse il referendum sull’ultima versione del Piano per la riunificazione dell’isola presentato dal segretario dell’Onu Kofi Annan.
Il Piano Annan prevedeva la creazione di una Repubblica Unita di Cipro, con bandiera nazionale ed inno unificati. La nuova entità politica sarebbe stata retta da un governo federale composto da due Stati costituenti, con un senato federale formato da ventiquattro turco-ciprioti e ventiquattro greco-ciprioti che avrebbe dovuto costituire l’assemblea legislativa comune. La presidenza, a rotazione, prevedeva che ad un presidente greco-cipriota si sarebbe dovuto affiancare un vice-presidente turco-cipriota. Il Piano stabiliva una suddivisione tra materie federali e materie riservate alle due comunità ed una progressiva smilitarizzazione dell’isola.
Il 75% dei greco-ciprioti votarono contro il Piano mentre il 64% dei turco-ciprioti si espressero a favore. Uno dei punti più controversi, che aveva spinto i tre quarti dell’elettorato greco-cipriota a respingere il Piano Annan, prevedeva che i costi della riunificazione sarebbero stati in gran parte a carico della comunità greco-cipriota. Inoltre secondo i greco-ciprioti il Piano non fissava una precisa tabella per il ritiro degli oltre trentacinquemila militari di Ankara stanziati nella TRNC.
Lo stesso presidente della Repubblica di Cipro Tassos Papadopoulos, considerando l’accordo troppo sbilanciato a favore dei turchi e approfittando del fatto che l’esito del referendum non avrebbe influito sull’ingresso della Repubblica di Cipro nell’Unione Europea, prevista per il 1º maggio, si schierò a favore della bocciatura del Piano.
La vittoria del no nella parte greco-cipriota suscitò profonda delusione nella parte turco-cipriota e l’irritazione dell’intera comunità internazionale in particolare dell’Onu che si era spesa in prima persona con la presentazione di un Piano. Per quasi quattro anni, dal referendum fino alle elezioni presidenziali nella Repubblica di Cipro, le Nazioni Unite si disinteressarono alla questione cipriota in attesa di tempi migliori.
Per una ripresa del dialogo tra le due comunità bisognerà attendere il 2008. Intanto nel 2005 era stato eletto presidente della TRNC Mehmet Ali Talat leader del Partito Turco Repubblicano e già primo ministro ai tempi del referendum del 2004 per il quale si era schierato a favore del si. Il 24 febbraio 2008 venne eletto presidente della Repubblica di Cipro Dimitris Christofias leader di AKEL (Partito Progressista dei Lavoratori) lo storico partito comunista dell’isola. Entrambi di sinistra e giovani rispetto alla generazione protagonista del conflitto (Rauf Denktaş, Glafkos Klerides, Spyros Kyprianou, Tassos Papadopoulos) Talat e Christofias erano uniti dalla sincera volontà di perseguire la riunificazione dell’isola.
Il 21 marzo, a meno di un mese dall’elezione di Christofias, ebbe luogo il primo incontro tra i due presidenti. Come segno della rinnovata fiducia tra le parti il 3 aprile veniva aperto un varco a Ledra Street, la principale via pedonale di Nicosia lungo la quale corre la Green Line (Linea Verde) che divide in due la città e l’isola. Negli incontri successivi, tra marzo e luglio 2008, le due parti maturarono la decisione di avviare nuove trattative e stabilirono che un eventuale accordo sarebbe stato sottoposto ad entrambe le comunità mediante referendum.
I due leader dichiararono di voler dare vita ad una federazione bi-zonale e bi-comunitaria “con eguaglianza politica.” Inoltre stabilirono che la Federazione doveva avere una “singola sovranità e cittadinanza.”
Una prima sessione di incontri si svolse tra settembre 2008 ed agosto 2009. La questione più complessa da risolvere riguardava la struttura dello Stato.
Il primo ostacolo riguardava la presidenza ed i poteri da conferire allo Stato federale. L’altro grande ostacolo era rappresentato dalla genesi del nuovo Stato. I greco-ciprioti sostenevano che esso dovesse essere il diretto erede della Repubblica di Cipro poiché temevano che alla comunità turca fosse riconosciuto il diritto alla secessione. Per l’ipotesi contraria propendevano i turco-ciprioti.
I greco-ciprioti, inoltre, volevano la piena libertà di lavorare, risiedere e acquistare in tutta l’isola; i turco-ciprioti puntavano a limitare queste libertà nel nord per evitare il ritorno degli sfollati greci. Altro grande problema era quello delle proprietà.
A giugno 2009 il presidente Christofias manifestò segni di insoddisfazione per l’andamento delle trattative e per gli scarsi risultati conseguiti, segno dell’estrema complessità delle questioni poste sul tavolo.
Tra settembre 2009 e marzo 2010 si svolse una seconda sessione di incontri. Le trattative vennero interrotte dalle elezioni presidenziali nella TRNC, previste per il 18 aprile 2010, che videro l’affermazione con il 50,38% dei voti di Derviş Eroğlu leader del Partito di Unità Nazionale.
Il nuovo capo di stato dichiarava di voler puntare non alla riunificazione dell’isola  bensì ad una sua divisione in due Stati. L’uscita di scena di Talat, sostenitore dell’unificazione e di più stretti rapporti con l’Unione Europea, ha rappresentato un duro colpo per il processo di riunificazione. Le cause della sua sconfitta vanno ricercate nella difficile situazione economica in cui versa la TRNC dovuta all’isolamento internazionale cui è sottoposta e agli scarsi progressi compiuti nel processo di riunificazione.
Le elezioni presidenziali nella TRNC hanno evidenziato una netta spaccatura all’interno della comunità turco-cipriota. Determinante per la vittoria di Eroğlu è stato il sostegno dei coloni anatolici inviati dalla Turchia dopo il 1974 al fine di aumentare la percentuale dei turchi sull’isola ma la cui presenza non è accettata come legittima dalle autorità della Repubblica di Cipro. Più sensibili al discorso nazionalista questa parte della comunità è orientata alla definitiva partizione dell’isola. Viceversa Talat ha ottenuto il sostegno dei turchi autoctoni favorevoli alla riunificazione in virtù di una secolare convivenza con la comunità greca.
Diversamente da quanto si prevedeva in un primo momento, la vittoria del nazionalista Eroğlu non ha segnato una discontinuità, almeno sotto il profilo formale, anche per merito di Ankara che ha esercitato pressioni affinché la nuova leadership turco-cipriota continuasse le trattative al fine di non compromettere il suo già difficile cammino di adesione alla UE. È innegabile che con l’uscita di scena di Talat è venuto meno quell’entusiasmo e quella genuina ricerca di un accordo che accomunava entrambe le leadership.
I lavori su richiesta di Christofias sono ripresi dal capitolo delle proprietà, il più complesso poiché quello che presenta le maggiori difficoltà di natura politica, economica e tecnica. Ma nel corso del 2010 il negoziato intercipriota, giunto prossimo allo stallo, ha richiesto l’intervento diretto del Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon che ha invitato a New York, per il 18 novembre 2010, i leader delle due comunità, Dimitris Christofias e Derviş Eroğlu. Entrambi hanno ribadito la volontà di intensificare le trattative per superare i punti di maggiore disaccordo: proprietà, aggiustamento territoriali e garanzie.
Il Segretario Generale ha dato appuntamento ai due leader a Ginevra per la fine di gennaio 2011. Ma come era facile prevedere l’incontro di Ginevra non ha prodotto passi in avanti. Inoltre le elezioni legislative del 22 maggio nella Repubblica di Cipro e quelle del 12 giugno in Turchia comporteranno un ulteriore stallo nel prosieguo del negoziato.
L’insuperabile ostacolo di Cipro


La questione di Cipro rappresenta un vero e proprio nodo gordiano per la politica estera di Ankara. La necessità di trovare una soluzione che risulti soddisfacente per tutte le parti coinvolte nella disputa (le comunità greco e turco-cipriota, la Grecia e la Turchia) è diventata ancora più impellente alla luce delle nuove ambizioni in politica estera del paese anatolico.
Attualmente Cipro è all’origine del congelamento dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea ed un forte limite alla nuova politica estera promossa dal governo del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan, teorizzata dal ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu.
Senza un accordo che ponga fine alla questione cipriota, Ankara non potrà ambire ad entrare nell’Unione Europea. Nicosia, in qualità di paese membro della UE, può esercitare il diritto di veto sull’ingresso di Ankara che da parte sua non riconosce la Repubblica di Cipro come soggetto internazionale. Come diretta conseguenza 8 dei 35 capitoli negoziali tra Ankara e Bruxelles sono fermi dal 2006 a causa del rifiuto turco di aprire i porti e gli aeroporti alle navi ed agli aerei greco-ciprioti. Ufficialmente questa posizione è motivata dal fatto che la Turchia vuole che la UE onori la promessa di porre fine all’isolamento della TRNC come ricompensa per l’accettazione del Piano Annan; in realtà l’apertura degli scali navali ed aeroportuali significherebbe per il governo di Ankara un automatico riconoscimento della Repubblica di Cipro ed una implicita condanna dell’operazione militare che nel 1974 portò all’occupazione della parte settentrionale dell’isola ed all’espulsione dei greco-ciprioti.
Per il governo dell’AKP, come per qualsiasi altro governo turco, le conseguenze di un simile gesto sarebbero disastrose in termini elettorali.
Da sempre, infatti, la questione cipriota è uno dei temi di politica estera che più infiammano il dibattito politico e l’opinione pubblica turca. Per trent’anni, fino all’avvento dell’AKP, essa ha di fatto monopolizzato la politica estera del paese che si limitava al suo ruolo all’interno della NATO, alle sue aspirazioni europee ed all’estenuante confronto con la Grecia all’interno del quale si colloca la questione cipriota.
Paese profondamente nazionalista, la questione di Cipro Nord tocca un nervo particolarmente sensibile capace di eccitare il nazionalismo turco trasversale ai partiti ed alla stessa società turca. Ciò spiega la forte reticenza dei governi ad assumere qualsiasi iniziativa che possa apparire come una concessione alla parte avversa. Ogni qual volta che i negoziatori trovano un accordo su una questione che sembra propendere verso la parte rivale, la stampa e le forze politiche contrarie al dialogo scatenano una campagna propagandistica che rappresenta la più minima delle concessioni alla controparte come una sconfitta ed uno smacco all’orgoglio ed al prestigio della Nazione.
La propaganda nazionalista, avversa al dialogo, diventa particolarmente pressante con l’approssimarsi delle campagne elettorali; anche questa volta c’è d’aspettarsi che Cipro sarà uno dei temi che maggiormente infiammeranno l’imminente campagna elettorale in vista delle elezioni legislative del 12 giugno. Ciò si traduce in uno stallo delle trattative tra greco e turco-ciprioti.
La nuova politica estera di Ankara si basa sul concetto di “profondità strategica.” Si tratta di una vasta area geografica (Balcani, Vicino Oriente, Caucaso, Mar Nero, Mediterraneo Orientale) nella quale la Turchia dovrebbe fungere da elemento di moderazione e di stabilizzazione. Dal concetto di “profondità strategica” deriva il principio geopolitico di “zero problemi con i vicini.” Per Davutoğlu la politica estera turca deve impegnarsi a creare lungo i propri confini un’area di stabilità e di pace tale da permetterle di dispiegare il proprio soft power che si esprime mediante l’aumento dell’interscambio commerciale, la firma di accordi energetici con i paesi confinanti e prossimi e la promozione dell’eredità culturale ottomana. Ma questo principio geopolitico presuppone una normalizzazione delle relazioni con la Repubblica di Cipro, rientrante nella “profondità strategica.”
In un paese democratico i partiti politici tendano ad evitare quelle scelte politiche che possano danneggiarle in termini elettorali. Il timore di perdere il consenso di quella fetta dell’elettorato più sensibile al discorso nazionalista a tutto vantaggio del CHP (Partito Repubblicano del Popolo) e degli ultranazionalisti dell’MHP (Partito del Movimento Nazionalista) in parte spiega perché la nuova politica estera del governo dell’AKP nel caso di Cipro manca di quella dinamicità e capacità propositiva evidente soprattutto nei rapporti con i paesi arabi e con l’Iran.
In vista delle elezioni l’AKP sembra aver deciso di giocare la carta nazionalista in modo da sottrarre voti all’MHP ed al CHP ed ottenere una maggioranza parlamentare il più ampia possibile; l’obiettivo sarebbe la maggioranza dei due terzi dei seggi in parlamento per far approvare una nuova Costituzione senza dover ricorrere all’appoggio di altri partiti.
In questo modo su Cipro il governo dimostra come l’elemento nazionalista sia ancora in grado di condizionare pesantemente le sue scelte. La questione curda, i rapporti con l’Armenia e Cipro, sono i limiti più evidenti in politica interna ed estera di un governo che, se è riuscito a scrollarsi di dosso l’opprimente tutela dei militari, non sembra ancora maturo per affrancarsi dal condizionamento del “dogma nazionalista.”
Nessun governo turco si azzarderà mai a fare delle scelte su un tema così scottante, come Cipro, senza un’adeguata contropartita che può essere concessa solo dalla UE.
Il ruolo di Bruxelles finirebbe con l’essere strategico al fine di trovare una soluzione che risulti soddisfacente per tutte le parti e per offrire al governo turco quell’aiuto esterno necessario per superare le pressioni e le resistenze interne.
In realtà la questione cipriota è il paravento dietro il quale si nascondono gli oppositori dell’ingresso di Ankara nella UE. Al momento gli unici paesi che si sono dichiarati apertamente contrari ad un eventuale ingresso della Turchia sono la Francia e la Germania. Ciò ha permesso ad una folta schiera di paesi (Austria, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca, Svezia, Lussemburgo, accumunati dalla presenza al loro interno di una folta comunità di immigrati anatolici) di mantenere una posizione ambigua. Trovare una soluzione al problema di Cipro costringerebbe la UE a dover fare chiarezza sulle sue reali intenzioni, schiodando diversi paesi da un atteggiamento incerto ed obbligandoli così ad assumere una posizione chiara.
Presenti sull’isola dal 1964 con la missione UNFICYP (United Nations Peacekeeping Force in Cyprus) le Nazioni Unite sono da quasi mezzo secolo impegnate nel tentativo di trovare un accordo. La UE ha sempre mantenuto un atteggiamento defilato in una disputa per essa tanto più importante poiché coinvolge paesi membri dell’Unione Europea ed altri che ambiscono ad entrarvi.
Un’interpretazione maliziosa suggerisce che all’interno dell’Europa c’è chi non ha fretta di raggiungere un accordo. Francia e Germania, che insistono sul fatto che la Turchia dovrebbe avere un partenariato privilegiato ma non piena adesione all’Unione Europea, sono ben felici di nascondersi dietro le obiezioni su Cipro.
Da parte sua Bruxelles pone sul tavolo una serie di problematiche (l’insoddisfacente deficit democratico, la questione curda, i rapporti con l’Armenia ed il riconoscimento del genocidio armeno, la difficoltà ad assimilare l’acquis comunitario) che Ankara non ha fretta di affrontare senza una dichiarazione di Bruxelles su un suo eventuale ingresso in un arco di tempo che risulti ragionevole. D’altro canto Bruxelles, in mancanza di sostanziali passi in avanti di Ankara nel campo delle riforme richieste, non può sbilanciarsi nel fissare alcuna data. Inoltre dopo gli allargamenti del 2004 e del 2008 i vertici della UE non sembrano affatto intenzionati ad accelerare i tempi per l’adesione turca.
Il nuovo attivismo in politica estera della Turchia ha inserito un ulteriore elemento di complessità. La “riscoperta” della sua dimensione vicino orientale come conseguenza della sua penetrazione economica nei mercati della regione (facilitati da accordi come la recente Unione Doganale con Siria, Libano e Giordania, primo passo verso la creazione di un più vasto spazio economico che coinvolga tutti i paesi dell’area) stanno creando quell’alternativa “orientale” che disincentiva l’impegno turco nel perseguire  l’integrazione europea e la risoluzione del problema di Cipro.
La stessa Repubblica di Cipro, nonostante le trattative in corso e le dichiarazioni di buona volontà, non sembra impaziente di unirsi alla sua povera metà settentrionale. Ora che Nicosia è diventata un membro dell’Unione Europea ed ha aderito all’euro (2008), un eventuale riunificazione con la TRNC la costringerebbe a massicci investimenti nella parte turco-cipriota.
La Grecia, alle prese con una pesantissima crisi finanziaria, teme che il suo potente vicino anatolico possa approfittare delle sue difficoltà, di conseguenza non ha fretta di raggiungere un accordo che potrebbe sbloccare il suo cammino vero la UE.
Ma è soprattutto la TRNC a subire in questa fase di stallo le conseguenze più pesanti essendo la parte più debole. La difficile situazione economica che la rende totalmente dipendente dalla madrepatria e la prospettiva di riunificazione che si allontana sempre più, hanno spinto i turco-ciprioti per la prima volta dall’invasione del 1974 a scendere in piazza a protestare. Le manifestazioni del 28 gennaio e del 2 marzo sono state originate dalle misure d’austerità imposte dalla Turchia (che fornisce annualmente 700 milioni di dollari in aiuti) e dalla richiesta di riunificazione dell’isola. È probabile,quindi, che nel breve e medio termine sarà soprattutto la comunità turco-cipriota ad esercitare maggiori pressioni per il prosieguo delle trattative.
La questione cipriota si lega alla vicenda del Kosovo la cui indipendenza (17 febbraio 2008) riconosciuta dagli USA e da una buona parte dei paesi della UE, ha aperto la strada ad un preoccupante precedente con potenziali conseguenze che potrebbero estendersi da Cipro al Caucaso.
L’indipendenza del Kosovo, infatti, è stato il precedente utilizzato dalla Russia per riconoscere l’indipendenza dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud a seguito della sciagurata guerra scatenata dalla Georgia di Mikheil Saakashvili, il cui unico risultato è stato quello di frantumare, forse irrimediabilmente, l’integrità territoriale del paese caucasico.
L’indipendenza ed il riconoscimento internazionale (sebbene non unanime) del Kosovo, dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, in teoria potrebbero essere il precedente  utilizzato anche dalla Turchia per spingere verso un definitivo riconoscimento internazionale della Repubblica Turca di Cipro Nord. L’eventuale riconoscimento della TRNC avrebbe conseguenze negative su un’altra questione particolarmente delicata per la Turchia; il Nagorno-Karabakh/Artsakh, l’enclave armena in territorio azero autoproclamatasi indipendente ed anch’essa non riconosciuta a livello internazionale.
Molto probabilmente nel caso in cui l’indipendenza della TRNC venisse riconosciuta da altre nazioni le tensioni della Turchia con la Repubblica di Cipro e con la Grecia finirebbero per compromettere la sua penetrazione nei Balcani (area anch’essa rientrante nella dottrina della profondità strategica) e la sua integrazione nella UE.
Come reazione altri paesi (in primis la Repubblica di Cipro e l’Armenia) potrebbero essere spinti a riconoscere l’indipendenza del Nagorno-Karabakh/Artsakh con il rischio di provocare un nuovo conflitto tra Baku e Yerevan che avrebbe ricadute deleterie per gli interessi geopolitici e geoeconomici della Turchia nella Transcaucasia ed in Asia Centrale. La stessa politica estera di Ankara, incentrata sulla dottrina della profondità strategica e sul principio di “zero problemi con i vicini” ne risulterebbe seriamente compromessa.
Qualunque sarà l’esito delle elezioni legislative in Turchia del 12 giugno (la vittoria dell’AKP è data per certa) l’approccio del governo turco alla questione cipriota rimarrà immutato. Il governo Erdoğan non ha interesse a riconoscere l’indipendenza della TRNC. A quasi trentasette anni dall’invasione, l’indipendenza della parte nord dell’isola di Afrodite è una realtà di fatto. Sebbene riconosciuta solo dalla Turchia la TRNC è un membro della TURKOY (l’Organizzazione internazionale della cultura turca) ed è osservatore dell’OCI (Organizzazione per la Conferenza Islamica) il che equivale ad un implicito riconoscimento della sua indipendenza da parte dei paesi islamici e turcofoni. Inoltre le nuove generazioni greco e turco-cipriote, non avendo memoria dei tempi in cui l’isola era unificata, percepiscono la divisione come qualcosa di  immutabile. Più che le divisioni politiche sembra essere la forte sperequazione  economica a rendere irrealistica, almeno nel breve e medio periodo, la riunificazione. In trentasette anni le due parti hanno percorso strade differenti che hanno portato la TRNC a diventare di fatto l’ottantaduesima provincia turca con un grado di sviluppo paragonabile a quello delle più arretrate province dell’Anatolia; Viceversa la Repubblica di Cipro si è affermata come una delle più ambite mete turistiche del Mediterraneo. Inoltre i servizi finanziari off-shore offerti dalle sue banche attraggono importanti flussi di denaro spesso di dubbia provenienza o destinati a finalità poco trasparenti.

http://www.eurasia-rivista.org/la-turchia-alle-prese-con-la-questione-cipriota/9430/

sabato 9 febbraio 2013

La sottile linea rossa che separa la Tunisia dal baratro. Parla Jourchi, ex consulente della Clinton

«Con l'assassinio di Choukri Belaid abbiamo oltrepassato la linea rossa», dice Salaheddine Jourchi, giornalista, ricercatore, uno dei maggiori esperti della politica tunisina, che negli anni '70 fu militante del partito islamico Ennhada e in anni recenti consulente anche dell'ex segretario di Stato Hillary Clinton. Pochi conoscono come lui dall'interno le dinamiche storiche e attuali del movimento islamico.
«La lotta politico-ideologico tra gli islamisti da una parte e i laici e i nazionalisti dall'altra si è spinta troppo avanti: anche il popolo tunisino è diviso su fronti contapposti, con gravi problemi quotidiani per la sicurezza del Paese». Una soluzione politica per rimpiazzare l'attuale governo con uno più ampio, magari includendo l'opposizione, non è semplice: il nuovo esecutivo dovrebbe concludere i lavori dell'Assemblea per la nuova costituzione e fissare la data delle elezioni parlamentari, due traguardi indispensabili per dare un minimo di stabilità ma che in questo momento appaiono lontani.

La crisi istituzionale, se non verrà risolta in tempi accettabili, rischia di affondare lo stato ereditato dal vecchio regime con la rivoluzione dei gelsomini. «Perché qui è in gioco - spiega Jourchi - una partita essenziale, quella dell'unità nazionale, una questione centrale che vale per la Tunisia come per il resto del mondo arabo dove sono cadute o stanno e per cadere le dittature, dall'Egitto alla Siria». Dopo l'indipendenza dalla Francia, ottenuta senza spargimento di sangue, il padre della patria Habib Bourghiba fondò negli anni Cinquanta uno stato secolarista dove la religione veniva messa da parte, occultata. Non si celebrava neppure il Ramadan e Bourghiba, grande ammiratore di Ataturk, chiuse anche la Zitouna, la più antica università musulmana del Nordafrica: la religione venne relegata nelle moschee e gli islamici non potevano fare politica.
Il successore Ben Alì affrontò l'ascesa del movimento di Rashid Gannouchi con la repressione, lasciando di fatto ai margini gran parte del Paese. L'unità nazionale era imposta da uno stato poliziesco e quando è crollato il regime le divisioni nascoste dall'autocrazia e dalla retorica del raìs sono affiorate per diventare adesso eclatanti. Lo stesso movimento islamico è diviso, non solo tra Ennahda e i salafiti, i più radicali e violenti, ma anche al suo interno, come dimostra la sconfessione del primo ministro Jebali. «Una parte - dice Jourchi - vuole affermare l'egemonia di Ennahda come partito di maggioranza al potere, un'altra si rende conto dell'impasse ed è disponibile a condividere il potere andando oltre l'attuale coalizione di tre partiti».
Una divisione che conferma anche Feysal Nasser, portavoce del partito: «In Ennahda ci sono sempre state posizioni diverse. Non c'è da stupirsi, fa parte delle dinamiche nel confronto tra idee. Nonostante la propaganda dell'opposizione, ci vantiamo di essere un partito democratico: dovreste leggere almeno uno dei 15 libri scritti da Gannouchi sull'argomento, ma ci criticano senza averlo mai fatto». Anche se, aggiungiamo noi, lo sceicco Rashid Gannouchi, il fondatore e il numero due dell'egiziano Yousuf Qaradawi nell'internazionale dei Fratelli Musulmani, in oltre trent'anni non ha mai fatto passi indietro, fagocitando gli oppositori.
Meno efficace è stato Gannouchi nel frenare radicali e salafiti, la vera ragione del fallimento di Ennahda come partito di governo che ha portato all'esplosione della rivolta dopo l'assassinio di Belaid. «È stato compiuto da professionisti, mi sembra chiaro - dice Jourchi - anche se non sappiamo quanto siano fondate le ipotesi di collegamento ai salafiti o Al Qaida. Certo che se in Tunisia sono scesi in campo i jihadisti non sarà quello di Belaid l'ultimo assassinio politico». Ed è esattamente questa la sottile ma decisiva "linea rossa" che separa la Tunisia dal baratro.